III. L'ascesa al Monte Ortobene
Descrizione
L’Ortobene, o più semplicemente ‘il Monte’, è un luogo assai caro ai nuoresi. Sebastiano Satta – poeta in lingua italiana, di ispirazione carducciana, e sarda – gli ha dedicato dei celebri versi:
Meriggiano le pecore e i pastori.
Elci e felci non fremono a una stanca
ala di vento; il mare si spalanca
da Monte Bardia fino a Galtelli.
L'ombra di un volo e un grido di rapina:
l'aquila. Con un dondolio lento
si rimescola il branco sonnolento:
l'ombra dilegua in seno al mezzodì.
Come per ogni nuorese, si tratta di un luogo cruciale anche per Grazia Deledda, che così lo descriveva in una lettera al poeta sassarese Salvator Ruju, datata 5 settembre 1905:
No, non è vero che l’Orthobene possa essere paragonato ad altre montagne. L’Orthobene è uno solo in tutto il mondo: è il nostro cuore, è l’anima nostra, il nostro carattere, tutto ciò che vi è di grande e di piccolo, di dolce e duro e aspro e doloroso in noi.
La famiglia Deledda possedeva dei terreni sul Monte, che pure era visibile dalle finestre della sua casa a Santu Predu («Dalla finestra, munita di inferriate, come tutte le altre del piano terreno, si vedeva il verde dell’orto; e fra questo verde il grigio e l’azzurro dei monti», scrive in Cosima) e fu sempre frequentato dalla scrittrice, che nel suo romanzo autobiografico descrive minuziosamente le lunghe passeggiate a cavallo insieme al fratello Andrea e le avventurose carovane che ogni anno si inerpicavano fra le rocce e il fitto bosco, conducendola insieme agli altri pellegrini al Santuario di Nostra Signora di Su Monte, nelle cui cumbessias ci si trasferiva durante il periodo della novena. Le gite al monte furono per Grazia-Cosima occasione di crescita:
Certo, in quel giorno, Cosima imparò più cose che in dieci lezioni del professore di belle lettere. Imparò a distinguere la foglia dentellata della quercia da quella lanceolata del leccio, e il fiore aromatico del tasso barbasso da quello del vilucchio.
Il monte è il protagonista del romanzo Il vecchio della montagna (1900), dove le rocce modellate dal vento che costellano il percorso che si inerpica fino in cima vengono così descritte:
Qua e là le roccie accavalcate parevano enormi sfingi; alcuni blocchi servivano da piedestalli a strani colossi, a statue mostruose appena abbozzate da artisti giganti; altri davano l’idea di are, di idoli immani, di simulacri di tombe dove la fantasia popolare racchiude appunto quei ciclopi che in epoche ignote sovrapposero forse le roccie dell'Orthobene, traforandole nelle cime con nicchie ed occhi, attraverso cui ride il cielo
Nel racconto Colpi di scure, contenuto nella raccolta I giuochi della vita, Grazia Deledda affronta il tema del disboscamento di questo e di altri monti della Sardegna: problema cruciale, questo della deforestazione in epoca sabauda, che sarà al centro anche della ricerca storico-politica condotta diversi decenni più tardi da Giuseppe Dessì attraverso i suoi romanzi.
Il 25 agosto 1971 il Monte fu colpito da uno spaventoso incendio che ridusse in cenere 800 ettari di bosco. Un’imponente opera di rimboschimento gli ha fortunatamente restituito, almeno in parte, il suo aspetto verdeggiante. E allora, sulle tracce della scrittrice, si può intraprendere una piacevole escursione letteraria, inoltrandosi nella natura a partire dal centro della città: dalla Chiesa della Solitudine, infatti, il percorso deleddiano che porta in cima al Monte Ortobene può essere percorso in tre modi:
- A piedi, seguendo il sentiero 101 che parte proprio dal lato della chiesa e si inerpica verso la cima, seguendo la vecchia via preesistente alla costruzione della strada asfaltata. Si tratta del percorso descritto in Cosima da Grazia Deledda.
- In autobus con la linea 8 che parte dal capolinea in via Manzoni e transita in viale della Solitudine. La linea viene potenziata dal 15 giugno al 15 settembre (link nel sito? https://www.atpnuoro.it/percorsi-orari/percorsi-e-orari/linea-8-nuoro-m-te-ortobene-servizio-feriale-e-festivo.html)
- In macchina, percorrendo la strada panoramica che risale il monte Ortobene. A un bivio la strada si divide in due e dà origine a un anello che può essere comodamente percorso in auto e che tocca tutte le principali località del monte.
Tappe
Insolita era anche l’abitazione davanti alla quale ella si fermò, nella biforcazione dove la strada proseguiva, da una parte inerpicandosi sulla china del monte, e dall’altra scendendo nella valle a sinistra. Era una chiesetta, con la facciata che appunto guardava verso questa valle; circondata davanti e a un lato da uno spiazzo rinforzato da un muricciuolo assiepato che chiudeva una specie di orto, con alberi da frutta; un cancelletto di legno vi si apriva, e un piccolo sentiero conduceva alla parte orientale della chiesetta, adibita ad abitazione.
Solo due finestruole munite d’inferriata si aprivano sul muro della vecchia costruzione, dove la strada svoltava sotto lo spiazzo: il tetto di tegole nere, incrostate di musco e di erbe parassite, copriva egualmente la chiesetta e l’abitazione; e due segni, due simboli, vi si guardavano, da uno spigolo all’altro, sopra le due valli del promontorio: si guardavano come fratelli che, pure lontani, separati da tutto un mondo, si ricordano con tenerezza, e son pur figli della stessa madre: quello in cima alla facciata, sopra un piccolo arco dal quale pendeva la campana, era una croce; l’altro, dalla parte dell’orto, e quasi sopra la porticina dell’abitazione, era un comignolo: e ne usciva una bandiera di fumo, che rallegrò il cuore di Concezione.
(Grazia Deledda, La chiesa della solitudine).
L’attuale Chiesa della Madonna della Solitudine fu edificata tra il 1950 e il 1957 su progetto di Giovanni Ciusa Romagna, nel luogo in cui sorgeva il santuario campestre secentesco descritto da Grazia Deledda nel romanzo La chiesa della solitudine, l’ultimo da lei portato a compimento (considerando che Cosima esce postumo e incompiuto). La chiesa è intimamente legata alla figura della scrittrice: l’opera di restauro (di fatto, di ricostruzione) fu infatti commissionata in seguito alla proposta di riportare nella città natale la sua salma e di tumularla proprio della vecchia chiesa campestre. Fu bandita una gara e il progetto di rifacimento presentato da Giovanni Ciusa Romagna fu considerato il migliore; il progetto per la realizzazione del piazzale antistante, in seguito fortemente rimaneggiato, venne invece affidato ad Antoni Simon Mossa.
Il nuovo santuario riprende la semplicità dell’impianto originale («Nulla lo adornava; il tetto era di assi come quello di una capanna; un sedile in muratura, lungo le pareti, faceva le funzioni di panca»), del quale mantiene anche alcuni elementi descritti da Grazia Deledda nel romanzo, come ad esempio il collegamento con la casa del custode.
Ella andò nella chiesetta, passando per la piccola sagrestia che comunicava anch’essa con la cucina. Una finestruola alta s’apriva nella stanzetta, a nord: si vedeva il monte, come in un quadretto melanconico, senza sfondo di cielo, e la luce cruda delle rocce nude dava un senso profondo di solitudine glaciale. Anche la chiesetta, alla quale si entrava per mezzo di un usciuolo comunicante con la piccola sagrestia, sembrava scavata sotterra, tanto era fredda e umida; il barlume della lampadina accanto all’altare, e quello della lunetta polverosa sopra la porta, ne accrescevano la tristezza, ma, aperta la finestra, un chiarore cilestrino che veniva dall’orizzonte schiarito sopra le lontananze della valle, fece apparire meno gelido e desolato il povero santuario.
Alla sobrietà delle forme architettoniche, fanno da contraltare i ricchi e originali arredi sacri realizzati nella seconda metà degli anni Cinquanta da Eugenio Tavolara (portone d’ingresso, decorazione laterale con le quattrodici stazioni della Via Crucis, sportello del tabernacolo, Crocifisso e campana) e Gavino Tilocca (rilievo marmoreo absidale della Madonna con Bambino).
Il 20 giugno 1959 venne qui traslata la salma della scrittrice. Dopo la sua morte (avvenuta il 15 agosto 1936, per quello stesso male occorso in sorte alla protagonista della Chiesa della solitudine), Grazia Deledda era stata sepolta a Roma, nel cimitero monumentale del Verano, in una tomba che lei stessa aveva voluto richiamasse un nuraghe. Il nipote Alessandro Madesani afferma che la nonna non espresse mai il desiderio di essere seppellita in Sardegna. L’intenzione di riportarne il corpo nella città natale fu promossa dalla Regione Autonoma della Sardegna e da un comitato di intellettuali sardi e fu, come già detto, all’origine del rifacimento della secentesca chiesa campestre nelle forme sobrie progettate da Ciusa Romagna. Una piccola vendetta per questo trasferimento coatto forse Grazia Deledda se la concesse: le autorità cittadine che in pompa magna organizzarono la nuova inumazione, si accorsero all’ultimo momento che la bara giunta da Roma era troppo grande per entrare nel sarcofago fatto realizzare appositamente.
Per non deludere la folla accorsa per l’occasione fu quindi organizzata una finta sepoltura, mentre l’incresciosa situazione fu poi risolta con un escamotage: fu scavato un tunnel che dall’esterno della chiesa portava fin sotto il sarcofago e qui, all’esterno della chiesa, venne collocata la vera bara della scrittrice.
Solo in tempi relativamente recenti, la salma ha potuto essere sistemata nel luogo previsto: nel 2007 il corpo fu infatti nuovamente riesumato e, al termine dei lavori di restauro della chiesa, ha finalmente trovato posto al suo interno, dentro il sarcofago progettato da Giovanni Ciusa Romagna.
All’esterno della chiesa, a breve distanza dal piazzale, Maria Lai ha realizzato Andando Via. Omaggio a Grazia Deledda (2013). L’intervento, rimasto incompiuto per la morte dell’artista, è la sua ultima opera di arte pubblica.
Scopri il luogoA metà del sentiero 101 (dopo circa 1 ora di cammino) si arriva alla Fonte Sa ‘e Milianu, una delle tante presenti sull’Ortobene. Dalla sorgente dedicata a Sant’Emiliano ha origine il ruscello Ribu ‘e Seuna. L’attuale sistemazione risale agli anni ‘30. Pare che qui sorgesse il nucleo primitivo della città. Attorno al 1000 d.C. gli abitanti scesero a valle per dare origine al quartiere di Séuna. Proprio alle porte di questo antico rione si trovava la fonte Istiritta, citata da Satta nel Giorno del giudizio:
Non bastavano quelle mirabili fonti alla periferia del paese, Obisti, Istiritta, dalle acque freschissime che nel crepuscolo le serve (sas teraccas) portavano a casa nelle anfore posate lievi sulla testa, appena protetta da cércine? Ancora oggi, che ci sono tanti acquedotti, i veri nuoresi disdegnano quell’acqua che passa nei tubi, e mandano a prendere l’acqua antica sul monte.
Da notare che l’aggettivo ‘mirabili’ che abbiamo qui trascritto aveva dato origine a un errore propagatosi in tutte le edizioni del romanzo (Cedam, Adelphi, Ilisso ecc.), corretto solo da un successivo lavoro filologico basato principalmente sul manoscritto (L’autografo de Il giorno del giudizio, curato da Giuseppe Marci e l’edizione curata da Aldo Maria Morace per Il Maestrale): per un errore di battitura, nel passaggio dal manoscritto al primo dattiloscritto, ‘mirabili’ era diventato infatti ‘miserabili’.
In ricordo di questa fonte non più esistente c’è invece oggi, nelle vicinanze, la Fontana di Mariedda, che pure restituisce una eco letteraria, da una lirica in lingua sarda di Pascale Dessanay, poeta contemporaneo di Grazia Deledda:
Fit una die de iberru mala e fritta
fit bentu, fit froccande a frocca lada
e Mariedda, totu tostorada,
ghirabat chin sa brocca dae Istiritta.
Buffandesi sas ungras, poveritta!
Fachiat a cada passu s’arressada
e dae sa fardettedda istrazzulada
nch’essiat un’anchichedda biaitta.
Mentras andabat gai arressa arressa,
istabat annottandesi sa frocca
ch’imbiancabat una murichessa,
Cando trabuccat… e a terra sa brocca!
Mariedda pranghende tando pessat
chi li cazzan su frittu chin sa socca.
Era una giornata d’inverno brutta e fredda
era vento, nevicava a larghe falde
e Mariedda, tutta intirizzata,
con la brocca tornava da Istiritta.
Soffiandosi le unghie, poverina!
Faceva sosta a ogni passo
e la sua gonnellina sbrendolata
metteva a nudo le gambette paonazze.
Mentre camminava sostando, trasognata,
e indugiava a rimirar quei fiocchi,
che imbiancavano un gelso,
Ecco che inciampa… e in frammenti va la brocca!
Mariedda allora piange e pensa
che le scacceranno il freddo con la soga.
(trad. di Salvatore Mattana, in Gonario Pinna, Antologia dei poeti dialettali nuoresi)
Fatto sta che le fonti cittadine discendono proprio da quelle acque mirabili del monte. Ecco cosa scrive Deledda in Cosima, in un passaggio tratto dalle pagine in cui racconta il percorso che dal borgo porta alla cima dell’Ortobene:
Una seconda tappa fu alla sorgente d’acqua pura e luminosa come il diamante, che scaturiva in una piccola conca di pietre e si spandeva modesta e quasi furtiva fra l’erba calpestata e fangosa, in un cerchio di lecci qua e là arrampicati sulle cime azzurre. Già si sentiva il grido delle ghiandaie, e l’aria sembrava un liquore profumato di menta.
Le ragazze s’inginocchiarono sulla pietra e si protesero a bere nella fontana: e nel piccolo specchio d’onice dell’acqua in ombra Cosima vide i suoi occhi che le parvero della stessa miracolosa luce: luce che scaturiva dalla profondità della sua terra e aveva un giorno riflesso davvero l’anima assetata di divinità dei suoi avi pastori e poeti.
Sulla parte più alta del Monte Ortobene si trova la statua bronzea del Redentore, realizzata da Vincenzo Jerace nel 1901 in occasione del Giubileo. Ai piedi delle scale che conducono sul piccolo belvedere su cui è collocata la statua, si trova la lapide con l’epigrafe (datata 1905) scritta da Grazia Deledda per ricordare Luisa, la giovane moglie dello scultore, morta proprio mentre il marito terminava la sua opera:
Donne Nuoresi/ candidi vecchi pastori erranti/ lavoratori sparsi nella vallata aulente/ e voi tutti che al cerulo cadere della sera/ volgete gli occhi oranti verso l’immenso altare dell’Ortobene/ e al bronzeo Redentore sorgente/ tra fior di rosee nuvole offrite il vostro cuore/ ricordate la tenera donna che là oltre mare/ per voi inspirò l’artefice/ ed or sciolta dai veli/ mortali eletto spirito/ oltre i lucenti cieli/ offre il fior della preghiera al Redentore.
Vincenzo Jerace incise invece sul palmo della mano del Cristo la sua dedica alla moglie scomparsa: A Luisa Jerace, morta mentre il suo Vincenzo la scolpiva.
Dal belvedere ai piedi della statua il visitatore può godere di una splendida vista sulla città di Nuoro, sulla frazione di Lollove e sui territori di alcuni altri paesi del Distretto culturale del nuorese. A simili magnifici panorami che si aprono dalla cima del monte sono dedicate alcune pagine, giustamente famose, di Cosima:
Certo, in quel giorno Cosima imparò più cose che in dieci lezioni del professore di belle lettere. Imparò a distinguere la gazza dalla ghiandaia, la foglia dentellata della quercia da quella a punta di lancia dell’elce, e il fiore filigranato del tasso barbasso da quello piumoso del vilucchio. E da un castello di macigni di granito, sopra il quale volteggiavano alti i falchi che parevano attirati dal sole come le farfalle notturne dai lumi, vide una grande spada d’acciaio, messa ai piedi di una scogliera verde, quasi in segno che l’isola era stata tagliata dal Continente. Era il mare, che Cosima vedeva per la prima volta.
(…)
Si allontanò rapida, sfiorando con le braccia aperte le felci della radura, come una rondine che vola bassa all’avvicinarsi del temporale, e tornò poi in cima al dirupo donde si vedeva il mare. Il mare, il grande mistero, la landa di felci azzurre che la rondine solca a volo per arrivare in terre lontane. Così avrebbe voluto trasmigrare lei, verso i paesi di meraviglia dei racconti di Antonino; e nel ricordarsi di lui arrossì di nuovo, pensando al principe vestito nel colore delle lontananze che tutte le fanciulle aspettano. Ma i gridi aspri dei giovani rusticani, uno dei quali forse le era destinato per sposo, la richiamavano alla realtà. Si sentivano anche i fischi dei pastori, che radunavano il gregge: ogni voce, ogni suono vibrava nel grande silenzio, con un’eco scintillante, come in una casa di cristallo. Il sole calava dalla parte opposta, sopra le montagne di là della pianura, e già le capre, ancora arrampicate sulle vette, avevano gli occhi sanguigni come quelli dei falchi. Era tempo di ritornare a casa; e ricordando le sue giornate ancora fanciullesche, e le piccole storie che ella raccontava a se stessa come il grillo canta per sé la canzone, ella si sentiva, al cospetto del mare e sopra i vasti precipizi ingranditi dalle ombre rosse del tramonto, quasi simile alla capretta sulla cima merlata della roccia, che vorrebbe imitare lo slanciarsi del falco e invece, al fischio del pastore, deve ritornare nello stabbio.
Nella Casa museo di Grazia Deledda si trova esposta una foto della scrittrice in gita sul Monte, in compagnia di Antonio Ballero e di altri personaggi dell’Atene Sarda; l’immagine risale alle prime estati nelle quali la scrittrice, dopo il matrimonio e il trasferimento a Roma, tornava in Sardegna per le vacanze estive. Dopo la morte della madre, la vendita della casa e il trasferimento a Roma delle sorelle Peppina e Nicolina, la villeggiatura estiva in Sardegna sarà sostituita da quella a Viareggio e poi a Cervia.
Scopri il luogoIl santuario, situato sulla cima del monte Ortobene, fu fondato nel 1608, per volontà dei fratelli Pirella. La sua edificazione è legata allo scioglimento di un voto: in quell’anno, una nave con un gruppo di pellegrini di ritorno dal Santuario della Madonna di Montenero a Livorno fu sorpresa da una violentissima tempesta. I pellegrini, tra cui Monsignor Pirella, invocarono l’aiuto della Madonna e promisero, in cambio del suo soccorso, la costruzione di una chiesa a lei dedicata sulla prima cima che avessero visto. I fondatori del santuario sono ricordati da due lapidi: una posta al di sopra della porta laterale e l’altra, con lo stemma della famiglia, nel portone principale.
La chiesa è un classico esempio di architettura campestre: l’interno ha una singola navata e nella parte posteriore sono presenti sas cumbessias, le piccole abitazioni dove venivano accolti i pellegrini, e dove alloggiava Cosima/Grazia in occasione dei riti della novena, come anche si intuisce leggendo un altro brano di Cosima:
Sopra la piccola città, che già era a seicento metri sul livello del mare, sulla cima del Monte sovrastante, fra boschi di lecci e rocce di granito, poco distante dalla proprietà della famiglia di Cosima e dove per la prima volta aveva veduto il mare lontano, sorgeva una piccola chiesa detta appunto Madonna del Monte, su uno spiazzo sollevato e recinto di massi. Piccole stanzette erano addossate alla chiesa, sotto lo stesso tetto, e una specie di portichetto si apriva davanti alle due porte, una a mezzodì l’altra a ponente, con sedili in muratura tutto intorno. Nelle stanzette dimoravano i fedeli, durante il periodo della novena e della festa della piccola Madonna.
Tappe fuori percorso
Dalla Chiesa della Madonna della Solitudine, percorrendo la Strada Provinciale 45, è possibile raggiungere il Santuario di Nostra Signora di Valverde. Tutti gli anni, l’8 di settembre, la località è al centro di una festa religiosa molto sentita: molti fedeli dalla città scalano a piedi le pendici dell’Ortobene per giungere al santuario in una processione accompagnata da una novena. Questa chiesetta campestre è descritta in Canne al vento:
La domenica dopo Pasqua andò a una piccola festa campestre nella chiesetta di Valverde. (…) La gente camminava triste ma tranquilla, come in una processione, avviata non a un luogo di festa ma di preghiera: anche una fisarmonica lontana ripeteva il motivo religioso delle laudi sacre, ed egli sentiva che la sua penitenza era cominciata. Arrivato alla chiesetta, sull’alto della china rocciosa, sedette accanto alla porta e si mise a pregare: gli sembrava che la piccola Madonna guardasse un po’ spaurita dalla sua nicchia umida la gente che andava a turbare la sua solitudine, e che il vento soffiasse sempre più forte e il sole cadesse rapido sopra la valle per costringere gl’importuni ad andarsene.
Scopri il luogoAlle pendici del monte è possibile visitare un bellissimo e interessante sito archeologico, le Domus de Janas de Borbore. Il suggestivo nome – letteralmente, case delle fate – con cui sono conosciuti questi complessi sepolcrali di epoca prenuragica può riportarci alla mente la bruciante fantasia di una narratrice come Grazia Deledda, sempre capace di mescolare la pittura del reale con l’espressività dei simboli, l’oggettività del paesaggio con le suggestioni fantastiche delle tradizioni popolari.
Si pensi a un brano come questo, tratto dalla novella L’anellino d’argento:
In Sardegna esistono ancora le case delle fate. Solo che queste fate erano piccolissime; piccole come bambine di due anni, e non sempre buone, anzi spesso cattive: in dialetto si chiamavano Janas e ancora è in uso una maledizione contro chi può averci fatto qualche dispetto: – Mala Jana ti jucat – mala fata ti porti; vale a dire, ti perseguiti.
Il mio sogno, da bambina, era di visitare queste domos de Janas e poterci penetrare: ma essendo esse lontane dall’abitato, per lo più in luoghi deserti e rocciosi, la cosa non era facile.
Le storielle che un servetto d’ovile raccontava ogni volta che veniva in paese per cambiarsi la camicia e per andare a messa, aumentavano il mio desiderio.
Questo servetto raccontava dunque di aver più volte visitato le domos de Janas, e abbassava la voce nel descriverne i particolari. – La porta è bassa e stretta, fatta con lastre di pietra; e bisogna entrare carponi: sulle prime non si vede che una piccola stanza, un antro tutto di sassi, dove si rifugiano le bisce e le lucertole; ma se tu hai la pazienza e l’avvertenza di cercare, troverai una pietra mobile che gira come un uscio, ed è la vera entrata alla casa delle Janas. Ancora bisogna penetrare carponi, ma subito ti trovi in una stanza alta più di sette metri, tutta dorata come un pulpito, con la vôlta dipinta di stelle; tu vedi di fronte a te, per migliaia di usci spalancati, una fila di stanze, una più bella dell’altra, che finiscono in una loggia sul mare.
Questo era il particolare che più affascinava: questo sboccar della misteriosa casa sotterranea nell’infinito respiro del mare.
Ma poco c’era da credere a quanto raccontava il servetto.
Nondimeno, le creature misteriose delle tradizioni popolari sono in grado di abitare l’immaginazione inquieta (o l’inconscio) dei personaggi deleddiani, spesso combattuti tra senso del dovere e peso della colpa, come nel caso di Efix in Canne al vento:
Efix sentiva il rumore che le panas (donne morte di parto) facevano nel lavar i loro panni giù al fiume, battendoli con uno stinco di morto, e credeva di intraveder l’ammattadore, folletto con sette berretti entro i quali conserva un tesoro, balzar di qua e di là sotto il bosco di mandorli, inseguito dai vampiri con la coda di acciaio.
Era il suo passaggio che destava lo scintillio dei rami e delle pietre sotto la luna: e agli spiriti maligni si univano quelli dei bambini non battezzati, spiriti bianchi che volavano per aria tramutandosi nelle nuvolette argentee dietro la luna: e i nani e le janas, piccole fate che durante la giornata stanno nelle loro case di roccia a tesser stoffe d’oro in telai d’oro, ballavano all’ombra delle grandi macchie di filirèa, mentre i giganti s’affacciavano fra le roccie dei monti battuti dalla luna, tenendo per la briglia gli enormi cavalli verdi che essi soltanto sanno montare, spiando se laggiù fra le distese d’euforbia malefica si nascondeva qualche drago o se il leggendario serpente cananèa, vivente fin dai tempi di Cristo, strisciava sulle sabbie intorno alla palude.
Specialmente nelle notti di luna tutto questo popolo misterioso anima le colline e le valli: l’uomo non ha diritto a turbarlo con la sua presenza, come gli spiriti han rispettato lui durante il corso del sole; è dunque tempo di ritirarsi e chiuder gli occhi sotto la protezione degli angeli custodi.