Salvatore Satta
Salvatore Satta - Daniela Spoto 2022, © CCIAA NU

I. Il giorno del Giudizio

Descrizione

Nuoro è situata nel punto in cui il monte Ortobene (più semplicemente il suo Monte) forma quasi un istmo, diventando altopiano: da un lato l’atroce valle di Marreri, segnata dal passo dei ladri, dall’altro la mite, se qualcosa può essere mite in Sardegna, valle di Isporòsile, che finisce in pianura, e sotto la grande guardia dei monti di Oliena, dilaga fino a Galtellì e al mare. Protetta dal colle di Sant’Onofrio, che Dio sa che santo doveva essere, se non ha lasciato la minima traccia di sé, neppure in un nome di battesimo, Nuoro comincia dalla chiesetta della Solitudine, che sorge su quest’istmo, scende dolcemente verso il Ponte di Ferro, dove par che finisca, e invece ricomincia subito dopo una breve salita per morire davvero prima del Quadrivio, un nodo dal quale si dipartono le paurose strade verso l’interno.

Iniziamo a visitare Nuoro con la guida del romanzo Il giorno del giudizio di Salvatore Satta, e facciamolo a partire dal brano appena letto: ossia una descrizione fisico-geografica, condotta con un’eleganza debitrice, probabilmente, del sommo modello di Manzoni, autore da Satta amato. Il capitolo da cui è tratto, il secondo, inizia con un adagio celebre:

Nuoro non era che un nido di corvi, eppure era, come e più della Gallia, divisa in tre parti.

Tra questo incipit di capitolo e alcuni segnali del brano descrittivo, ci sono già gli estremi per capire che tipo di romanzo abbiamo in mano. È un romanzo di bilanci, è un romanzo della memoria; un romanzo nel quale, vanamente, la voce narrante tenta di far parlare le persone che un tempo hanno vissuto, sapendo che queste vogliono probabilmente essere lasciate in pace, ma pure cosciente del diritto dei defunti a essere rammemorati. Ma chi sono gli abitanti di Nuoro, di fronte ai quali Satta pone il lettore?

Questo in fondo era il grande problema di Nuoro. C’erano preti, c’erano avvocati, medici, professionisti, mercanti, c’erano poveri manuali, il ciabattino e il muratore, il maestro delle scarpe e il maestro del muro, c’erano gli oziosi, i miseri e i ricchi, i savi e i matti, chi sentiva l’impegno della vita e chi non lo sentiva, ma il problema di tutti era quello di vivere, di comporre col suo essere lo straordinario e lugubre affresco di un paese che non ha motivo di esistere.

Tappe

Prendiamoci da subito un momento per ripercorrere a brevi tappe la vita di Salvatore Satta. Nato a Nuoro nel 1902, qui aveva fatto le scuole sino al ginnasio, per poi terminare gli studi liceali presso l’Azuni di Sassari. Gli studi di giurisprudenza divisi tra Pavia e Pisa segnano l’inizio di una delle tappe accademiche che lo vedranno a Camerino, Macerata, Padova, Genova, infine professore di Diritto processuale civile tra l’Università di Trieste e la Sapienza. Proprio qui, a Roma, egli si stabilirà definitivamente, succedendo nella cattedra ad Antonio Segni, al quale era legato da grande amicizia, quando costui fu eletto Presidente della Repubblica. Nel 1926 si era ammalato di tisi, curandosi per un paio d’anni in sanatorio. Da questa esperienza nasce il romanzo La veranda, pubblicato postumo (1981), proprio come il Giorno, e in seguito al successo di quest’ultimo. Nel 1948 aveva poi pubblicato un altro testo, De profundis, fondamentale per comprenderne la poetica, intriso di malinconico pessimismo. Nel 1936, a Padova, aveva conosciuto Laura Boschian, assistente di Letteratura russa all’Università; i due si sarebbero sposati nel 1939. Se si vuole approfondire il rapporto tra i due coniugi, durato sino alla morte di Satta (aprile 1905), è possibile leggere due bei libri: quello della stessa Boschian (La mia vita con Salvatore Satta) e la raccolta delle lettere che il marito le aveva inviato (Mia indissolubile compagna. Lettere a Laura Boschian 1938-1971)

La casa natale dello scrittore si trova al numero 1 di via Angioy, poco distante dalla via Majore (esattamente, nella strada che conduce a piazza Satta), e si estende nello spazio che divide la stessa via Angioy da via Sebastiano Satta. L’edificio, che è oggi di proprietà della diocesi di Nuoro, ospita il l’Istituto “Filippo Satta Galfré”, intitolato al fratello maggiore di Salvatore Satta (Ludovico, nel romanzo), che lo donò nel 1963 al Seminario vescovile di Nuoro, indicando nel testamento di volere che fosse destinato all’accoglienza delle donne povere della provincia di Nuoro. Le volontà del donatore sono portate avanti a partire dal 2009, grazie alla costituzione nella casa di una comunità residenziale che ospita donne affette da disturbi mentali. 

Di fronte all’ingresso si trova il palazzo che, stando al romanzo, risulta essere dell’ingegnere Mannu, al quale pure – sempre secondo quanto si legge nel Giorno – è attribuito il progetto del palazzo fatto costruire dal padre dello scrittore, il notaio Salvatore Satta Carroni (Sebastiano Sanna Carboni, nel romanzo):

Il fatto è che la casa di un notaio non può essere come la casa di un contadino di Sèuna, con la sua corte, il suo rustico patio, la catasta della legna, lelóriche” per il giogo, e in fondo la cucina col focolare in mezzo alla stanza; questa si è fatta da sé attraverso i secoli, come l’uccello fa il suo nido. Don Sebastiano ha bisogno di un ingegnere, e l’ingegnere è là nella casa di fronte, la casa signorile forse più vecchia di Nuoro, chiusa come un fortilizio, piena di donne e di matti, con le finestre sempre chiuse, le porte che si aprono solo per segnali convenuti. Don Pietrino Mannu, come tutti i Mannu, era ricco e viveva in miseria: ma era stato a Roma, aveva studiato, ed era tornato ingegnere, in un paese dove da cent’anni non si costruiva più una casa. (…) E così stese disegni su disegni, calcoli su calcoli. Tutto bene ma egli aveva in mente i palazzi di Roma, le scalee dove gli antichi salivano a cavallo (aveva letto), e così invece di una casa fece una scala, un vano immenso nel quale a ogni piano si aprivano dei buchi che erano stanze, una dentro l’altra, destinando al sacrificio, l’intera famiglia. Vero è che la gente stupiva, guardando di là dalla soglia, di quell’atrio inutile e immenso, e cominciava a favoleggiare di chissà quali ricchezze, anche se il capomastro andava dicendo che senza il suo provvidenziale intervento Don Sebastiano sarebbe dovuto entrare carponi nel suo palazzo, tanto bassa era stata concepita dall’ingegnere l’architrave della porta.

Il primo capitolo del romanzo è dedicato alla presentazione dei personaggi (a iniziare dal padre notaio) e della casa. Proprio all’inizio troviamo Don Sebastiano nel suo studio, al piano superiore della casa, sul punto, come tutte le sere alle nove in punto, di terminare la sua giornata lavorativa e

scendere al piano terreno, nella modesta stanza che era da pranzo, di soggiorno, di studio per la nidiata dei figli, ed era l’unica viva nella grande casa, anche perché l’unica riscaldata da un vecchio caminetto.

Nell’ultima pagina, dopo che tutta la famiglia s’era riunita nel soggiorno, la giornata dei Sanna Carboni si chiude in modo tutt’altro che idillico, con una serie di gesti quotidiani, l’ultimo dei quali svela cosa si nasconde, all’interno dell’edificio, dietro la piacevole simmetria della facciata:

Così finiva quella serata, una delle tante serate della vita familiare, della famiglia che Don Sebastiano e Donna Vincenza in tanti duri anni di discussione avevano pure creato. I figli se ne andavano nelle gelide stanze da letto, all’ultimo piano, Ludovico aiutava la madre ad alzarsi dalla sedia, e la reggeva su per le scale che le diventavano faticose. Sebastiano, che ripeteva il nome paterno, doveva provvedere a chiudere la finestra che dava sulla strada. Per curarsi della facciata, quella bestia di Don Gabriele Mannu aveva fatto la finestra tanto alta che si erano dovuti poi fare due gradini di legno per potersi affacciare. Sebastiano si arrampicava come poteva, sostava un momento prima di tirare a sé le persiane. Nuoro si stendeva percorsa da un vento gelido. Rotolava lontano un carro sul selciato. Non una voce. Due carabinieri in pattuglia, rigidi e annoiati, venivano su per il Corso. Faceva quasi paura.

Altra cosa da notevole per quanto riguarda l’architettura della Casa Satta sono le corti, descritte nel romanzo all’inizio del terzo capitolo:

Anche nella corte della casa di Don Sebastiano c’era un oleandro. Più che una corte era una serie di corti, ricavate da successivi acquisti di casette e demolizioni, che alla fine di uno stretto passaggio da un lato conduceva alla stalla, dall’altro si allargava in uno spiazzo detto orticello che sarebbe stato un giardino se Don Sebastiano avesse amato i fiori (…). Il guaio è che l’oleandro è una pianta velenosa. Così almeno si credeva a Nuoro, e così credeva Donna Vincenza, che con l’andare degli anni cominciò a odiare quell’unica pianta che il marito avesse messo nella sua corte, per fare dispetto a lei, certamente. Ogni giorno (…) Donna Vincenza prendeva una pentola di lisciva e la buttava sulla pianta, con l’assurda volontà che bruciasse le radici, che potesse farla morire. Era una cosa senza senso, era un simbolo: ma che cosa poteva fare questa donna di cinquanta anni che non fosse un simbolo? Fra non molto l’artrite avrebbe fermato del tutto le gambe, non avrebbe potuto raggiungere nemmeno l’orticello, e l’avrebbe confinata su una sedia nella prima corte, con le mani intrecciate sul petto come una preghiera. Ma non pregava.

L’aspetto dello spazio esterno e delle sue corti si intuisce se si va a sbirciare, nella via Sebastiano Satta, attraverso un cancello che deve corrispondere al ‘portale’ più avanti descritto:

Ma, se il “portoncino”, come si chiamava la porta della casa che dava quasi sul Corso, non si apriva mai, se non al rintocco di uno degli anelli di ottone fissati a ciascuno dei due battenti (…), il “portale” che dava sul dietro era sempre aperto al grande soffio della campagna, perché immetteva nella corte, e di là entravano i frutti di quello che con tanta perizia il notaro aveva seminato, annunciando nella loro varietà il variare delle stagioni. Così, la casa aveva due facce, uno triste e una lieta, e due facce parevano avere gli abitanti, persino Don Sebastiano  che teneva a quei trionfali arrivi più che alla penna, sebbene la penna glieli procurasse.

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La via Majore, oggi corso Garibaldi, iniziava nel punto chiamato «Ponte ’e ferru» per terminare nell’attuale piazza S. Giovanni, dove le donne dei paesi vicini vendevano erbe e verdure, come anche si legge in Cosima di Grazia Deledda. Se è possibile individuare uno spazio di demarcazione fra il quartiere contadino di Séuna e Santu Predu, il quartiere dei pastori, questo corrisponde proprio alla via Majore. In epoca umbertina, quando gli echi del nuovo Regno d’Italia giungono a Nuoro, la modernità si affaccia nel centro più importante della Barbagia: e lo fa proprio in questa strada. Così appare da un breve passaggio del grande studioso di lingua e cultura sarda Max Leopold Wagner, catturato quasi in presa diretta (1908):

Oggi Nuoro conta più di 7000 abitanti, ha un piccolo presidio militare, un ginnasio, un istituto magistrale ed è sede vescovile e di una viceprefettura. Gli edifici hanno per lo più un aspetto cittadino e il corso, ricoperto di lastre levigate è, a mio parere, nel suo genere, il più bello in Sardegna.

Lo conferma, molto più tardi, un altro celebre scrittore, che coi suoi romanzi ha riportato Nuoro – vecchia e nuova – nella letteratura del XXI secolo. Nel suo In Sardegna non c’è il mare (2008) Marcello Fois scrive:

Procedendo in avanti, lasciandosi Seuna alle spalle, si imbocca corso Garibaldi, che in altri tempi si chiamava Via Majore, strada maggiore. Lì i nuovi signori hanno fatto costruire le loro miniature di case umbertine come argini al fiume di granito grigio che ricopre quel tratto. Il notaio e l’avvocato avevano edificato alla continentale, case intonacate con balconi scenografici come palchi in prima fila nel teatro della modernità incombente. È il cuore trapiantato di questo posto, non senza continui rigetti, ma sempre attivo. È la via del commercio e degli incontri. Un ponte tra l’arcaico dimesso di Seuna e la carne viva, il cuore torbido di San Pietro. 

Il notaio di cui Fois parla è naturalmente il padre di Salvatore Satta, mentre le righe di Fois si accordano a questo passaggio tratto dal Giorno del giudizio:

Gli zii, come si chiamavano questi rustici anziani, entravano a Nuoro avvolti nei costumi nuovi, come in un salotto, e vi andavano per testimoniare o per parlare con l’avvocato o con il notaio (quando non vi erano condotti ammanettati), una, due volte all’anno, traendosi appresso i figli. Questi, vestiti da civili, ridicoli ai loro stessi occhi, vergognosi a poco a poco dei padri, di fronte a quei signori non meno sfaccendati ma che sedevano ai tavolini del caffè come esercitando un loro diritto di casta, vedevano le immense vetrine nelle quali si spandevano dolciumi o giocattoli o libri, si esponevano manichini senza testa vestiti di abiti fatti, tutti corrosi magari o ammuffiti, ma che erano il segno di una cosa mai vista e neppure immaginata, la ricchezza del denaro, tanto diversa da quella delle pecore e delle capre. 

Ogni giorno, attratta dall’eleganza dei palazzi o dalle vetrine dei locali, Grazia Deledda bambina percorreva quotidianamente la via Majore per raggiungere la scuola. E uno dei punti che di giorno in giorno assorbono la curiosità della bambina e delle sue compagne è il celebre Caffè Tettamanzi, che è poi anche il luogo al quale Salvatore Satta fa riferimento nel passo appena letto, quello - si legge qualche pagina più avanti - in cui «i signori esercitavano il diritto di non far niente». Nelle sale di questo bar, al civico 71, è ancora oggi possibile bere un caffè o un bicchiere di vino. Il nome è quello del primo proprietario, l’ebanista piemontese Antonio Tettamanzi, giunto a Nuoro per lavorare nella fabbrica della cattedrale. Nel 1892 il ferrarese Antonio Nani, in visita in città, lo descrive vecchio e debole di mente ma ancora intento a portare in giro «per le tre stanzette del caffè la sua persona allampanata e bonaria». Il caffè Tettamanzi, che con Deledda, in Cosima, faceva una breve apparizione, diventa nel Giorno del giudizio un luogo di primissima importanza:

Ogni giorno attratta dall’eleganza dei palazzi o dalle vetrine dei locali, Grazia Deledda bambina percorreva quotidianamente la via Majore, per raggiungere la scuola. E uno dei punti che di giorno in giorno assorbono la curiosità della bambina e delle sue compagne è il celebre Caffè Tettamanzi, che è poi anche il luogo al quale Salvatore Satta fa riferimento nel passo appena letto, quello in cui «i signori esercitano il diritto di non far niente». Nelle sale di questo bar, al civico 71, è ancora oggi possibile bere un caffè o un bicchiere di vino. Il nome è quello del primo proprietario, l’ebanista piemontese Antonio Tettamanzi, giunto a Nuoro per lavorare nella fabbrica della cattedrale. Nel 1892 il ferrarese Antonio Nani in visita in città, lo descrive vecchio e debole di mente, ma ancora intento a portare in giro «per le tre stanzette del caffè la sua persona allampanata e bonaria». Il caffè Tettamanzi,  che fa capolino, con Deledda, in Cosima, diventerà luogo di assoluto protagonismo nel Giorno del giudizio

Il Corso si stendeva con una lieve pendenza dalla Piazza di San Giovanni, dove era il mercato, al Ponte di Ferro: a metà, prima di una grande curva, e dopo la piazzetta della barandilla, c’era un tratto pianeggiante sul quale si affacciavano le case di pretesa, quella “del Registro” che Don Sebastiano aveva comprato per affittarla, quella di Bertini, uno dei continentali che trasformavano le pietre in oro, e finivano col sardizzarsi, (…) quella di Tettamanzi, altro continentale, ma di cui non si serbava ricordo che nel nome del caffè, al piano terreno.

Era un caffè grazioso, con piccole salette orlate di divani rossi, come, salvando il rispetto, i caffè di Venezia. Proprietario del caffè era adesso Giovanni Maria Musiu, forse per via di madre, ma che del continentale non aveva nulla: piccolo, grasso, con gli occhi neri, la barbetta a punta, aveva solo una maledetta volontà di vivere, cioè di giocare a carte nelle sue salette. In questo tratto pianeggiante si raccoglieva naturalmente tutta Nuoro, gli avvocati incontravano i clienti, i proprietariotti dei paesi dal costume brillante spiavano i mercanti per barattare astutamente i loro prodotti, l’olio e le mandorle della Baronia, il vino di Oliena, il formaggio di Mamojada e di Fonni. E di qui dovevano passare, al mattino, tutti quelli che andavano dal dio terragnolo che era il tribunale o dal dio anfibio che era la chiesa enorme, sproporzionata, fatta costruire da un vescovo ricco, il quale vi aveva fatto scolpire nel lungo cornicione frontale: Deiparae virgini a nive sacrum, che neppure i preti riuscivano a tradurre.

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Séuna è lo storico quartiere dei contadini. Un tempo era caratterizzato dalla disordinata presenza di casette basse con una corte interna. Qui ha inizio il percorso di formazione di Anania, il protagonista di Cenere di Grazia Deledda,  mentre anche Fois dedica al quartiere alcune righe significative:

Ora che Nuoro è diventata una città, qualcosa rimane a Seuna di quel silenzio, di quella discrezione operosa, di quella peculiare visione del mondo. Nelle case aperte intorno al cortile sempre lindo, nelle piantagioni di basilico e prezzemolo dell’orticello interno, nell’ombra scura che frantuma la luce impietosa. È la luce di Cenere della Deledda, la luce maestosa che bacia i poveri di questa terra. Ancora qualche Tatana si aggira per quelle strade con la compostezza di una divinità intoccabile.

«Come e più della Gallia», Séuna è una delle tre parti in cui è divisa la città, come avverte Satta al principio del secondo capitolo de Il giorno del giudizio. Al centro del quartiere c’è la vecchia Chiesa di Nostra Signora delle Grazie, un edificio dalla foggia semplice e rustica, che non si distaccava troppo dall’aspetto delle casupole del quartiere:

I seunesi sono tutti contadini, dal primo all’ultimo, fanno paese nel paese, e si dice che costituiscano il nucleo originario dell’insediamento. Nuoro, insomma, sarebbe nata da Séuna: ed io sono disposto a crederci perché a Séuna c’è la più vecchia chiesa di Nuoro, le Grazie, che non è poi che una di quelle stesse casette, sormontata da un frontone, con una campanella nel comignolo. Lo stesso prete che la officia è un contadino, e vive delle quattro rape che coltiva nell’orto, e di qualche elemosina (figuriamoci!), poiché non ha cura d’anime (S. Satta, Il giorno del giudizio).

Molti i passi a seguire in cui il grande giurista e scrittore si sofferma su questa parte della città: leggiamone alcune righe per accompagnare la nostra passeggiata tra le vie e viuzze di Séuna, sapendo che altre, trascritte sui muri, le leggeremo in cammino:

È in quest’ultimo tratto che sorge la prima parte di Nuoro. Si chiama Sèuna, e sorge per modo di dire perché è un nugolo di casette asse, disposte senz’ordine, o con quell’ordine meraviglioso che risulta dal disordine, tutte a un piano, di una o, le più ricche, di due stanze, col tetto di tegole arrugginite, lo spiovente verso la cortita dal pavimento di terra come Dio l’ha fatta, il cortile chiuso da un muro a secco come si chiudono le tanche, l’apertura verso la strada sbarrata da un tronco messo di traverso, e davanti a questa singolare porta quel capolavoro di arte astratta che è il casso sardo.

Sèuna è la tavolozza di un pittore che diventa quadro. Con le sue inquadrature bianche alle finestre, e il cielo che sovrasta libero e sereno, potrebbe essere un villaggio marino: basterebbe che ci fosse il mare.

Manco a dirlo, Séuna è la parte poverissima del borgo. Rispetto agli aristocratici della via Majore e ai ricchi pastori di San Pietro, e rispetto alla borghesia nascente che si insinua negli altri due ambienti, i contadini seunesi fanno parte a sé. Eppure, rispetto agli abitanti di San Pietro, hanno un vantaggio, tuttavia ben poco consolatorio:

Ma l’infinita povertà di Sèuna aveva un privilegio su quei potenti di San Pietro. Quando moriva qualcuno, il morto doveva per forza passare lungo il Corso lastricato, percorrerlo tutto, perché il cimitero, Sa ‘e Manca, era dalla parte opposta, al di là di San Pietro, nei pressi della Solitudine. E quando il morto passava, i signori del caffè Tettamanzi si alzavano e si scoprivano il capo.

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Il vecchio Convento dei Padri Minori Osservanti di via Manzoni, edificato alla fine del XVI secolo, fu destinato, dalla metà del XIX, a cambiare spesso la propria destinazione d’uso: fu utilizzato come aula di tribunale, teatro, sala da ballo (come pure mostra la novella Ballo in costume di Grazia Deledda), palestra, sede della banda musicale e scuola elementare. In quest'ultima veste, ospitò diversi personaggi illustri: studiarono tra le sue mura Sebastiano Satta, Mario Delitala, Francesco Ciusa, la stessa Grazia Deledda, Indro Montanelli (che visse a Nuoro nel periodo in cui il padre fu preside del Liceo Asproni) e, naturalmente, Salvatore Satta, il quale non manca di descrivere nel Giorno del giudizio il luogo in cui è iniziata la sua lunga formazione di studente e studioso:

La scuola era infatti il convento dei francescani che in un tempo ormai immemorabile era stato soppresso e incamerato con tutti i beni degli ecclesiastici, per qualche legge venuta di fuori. Il nome era rimasto (come era rimasto quello del vasto terreno adiacente, che si continuava a chiamare “la tanca dei frati”), ed essere al convento, andare al convento voleva dire essere a scuola, andare alla scuola. In realtà nulla era cambiato, di fuori e di dentro, perché la gente si contentava di poco, o meglio non esisteva il senso del poco: era rimasta anche la campana nella nicchia in cima alla parete dipinta di giallo, come in tutte le chiesette agresti della Sardegna, che non conoscono i campanili, e ziu Longu, il bidello, alle nove in punto tirava la fune, come faceva il sagrestano ai tempi dei frati. Lo stesso suono annunciava l'inizio dell'officio sacro e dell'officio laico, come se nulla fosse avvenuto, e in realtà nulla era avvenuto. Non era come degli altri beni della chiesa che erano finiti per quattro soldi nelle mani dei privati meno spregiudicati o meno superstiziosi, ed erano quasi tutti di San Pietro. Del resto dei frati non era rimasta la più piccola traccia, tranne qualche stinco che di quando in quando affiorava nella palestra all'aperto. Nell'interno, c'era ancora il grande atrio col pavimento di lavagna che si sbriciolava nell'umido, e su di esso si aprivano due stanzoni col soffitto a volta: quello a sinistra doveva essere stato la chiesa del convento, perché dal buco della serratura si intravvedeva qualche nicchia vuota, e in una persino un santo con la mano alzata, che insisteva a benedire in mezzo al ciarpame. Misteriosamente la porta restava sempre chiusa, ma può darsi che il tetto fosse da quella parte pericolante. Come può darsi che quella fosse una specie di sacrestia, o di refettorio o di parlatoio, e che la chiesa fosse invece nello stanzone di destra, che era l'aula nella quale maestro Mossa insegnava, perché alla cattedra, che poi non era che un tavolino, si ascendeva per quattro gradini, che erano visibilmente i gradini di un altare. (…) Dall'atrio si scendeva per una breve scala in quello che doveva essere stato il vero convento. Era una specie di quadrato, con un cortile troppo piccolo per essere un chiostro, e da due lunghi e opposti corridoi si accedeva alle aule, che poi non erano che le celle dei frati. E in quelle celle, illuminate più da una feritoia che da una finestra, e tanto alta che i frati potessero vedere Dio, ma non il mondo, si stipava un numero incredibile di ragazzi, quasi un nuovo miracolo avesse moltiplicato lo spazio. Le celle dell'opposto corridoio, a un piano rialzato, erano destinate alla scuola normale, cioè ai giovani, ormai adulti, che si avviavano a diventare maestri, secondo i nuovi ordinamenti, i quali volevano maestri colti, non povera gente, come maestro Mossa.

La campanella del convento non aveva niente a che fare con le campane di Santa Maria. Queste, nel loro vario linguaggio, erano una voce di comando, o che chiamassero i nuoresi, in verità poco chiesastici, al precetto domenicale, o spedissero i morti al cimitero, o annunciassero che Cristo era risorto o che il vescovo aveva varcato la soglia dell'episcopio per recarsi in processione al pontificale. La campana del convento non voleva nulla. Essa aveva una voce - tan, tan, tan - che scaturiva dalle lunghe bracciate di ziu Longu, come ieri da quelle di qualche frate o converso ancora mezzo addormentato, se pure non suonava da sola, dopo tanti anni. Ma questa voce si arrampicava su per la lunga via dei giardinetti, dove incontrava i ragazzi che scendevano saltellando al convento, penetrava nel corso e nelle vie nascoste, si librava nel cielo tersissimo di Nuoro. Era una delle due voci di Nuoro. L'altra era il rullo del tamburo di ziu Dionisi, il banditore municipale, ed era la voce serale, come quella della campana era la voce mattutina.

La cattedrale della diocesi di Nuoro è dedicata alla Madonna della Neve, patrona della città. Venne edificata tra il 1836 e il 1853 su progetto del frate architetto Antonio Cano (morto proprio durante i lavori di costruzione, in seguito alla caduta da un ponteggio) e consacrata nel 1873. La chiesa è in stile neoclassico e si affaccia su un'ampia piazza. Al suo interno sono conservate diverse opere di pregio, tra le quali possiamo ricordare la via Crucis di Giovanni Ciusa Romagna e Carmelo Floris, due dipinti di Bernardino Palazzi (Deposizione e I Discepoli di Emmaus) e una bussola lignea di ispirazione liberty realizzata dalla storica falegnameria sassarese dei fratelli Clemente. All’interno è possibile vedere l’altare neoclassico realizzato dal nonno di Salvatore Satta, l’architetto Giacomo Galfrè. Nel romanzo questo nonno continentale, padre di Donna Vincenza, è chiamato Monsù Vugliè:

Donna Vincenza non era completamente sarda. Era nata come Don Sebastiano nel regno di Sardegna, ma quel regno era sardo per beffa, e a Torino di sardi non c'era neanche la più piccola traccia. Invece, dal Piemonte veniva in Sardegna qualcuno, a trafficare o a comandare, e venne anche, proprio dal confine con la Francia (due passi in là, e il destino sarebbe stato completamente diverso) un certo Monsù Vugliè, di cui non si sa assolutamente nulla. Si dice, come in una eco, che fosse un architetto, ma chissà cosa voleva dire architetto allora, lo si sa poco anche adesso. È rimasta nei vecchi l’immagine di un uomo alto, generica evidentemente per un “continentale”, che metteva in soggezione, e anche questo è generico. E per il ricordo di un “colpo” che l’aveva fulminato in giovane età. Tutto qui, di una vita che dovette essere intensa, perché in pochi anni aveva acquistato due case, e un orto che era quasi un giardino, appena fuori di Nuoro, e fino a ieri sia chiamava “di Monsù Vugliè”. Oggi ci hanno costruito un palazzo del governo.

La chiesa è il punto focale di un passaggio tratto da La giustizia, romanzo del 1899 di Grazia Deledda, nel quale un altro luogo di grande rilievo è il prospiciente tribunale. Di fianco alla Cattedrale si trova infatti un imponente edificio dalle forme austere, che un tempo era adibito a tribunale, poi a museo (momentaneamente chiuso al pubblico), intitolato allo scultore nuorese Francesco Ciusa. Ai due edifici fa riferimento Satta, in questo brano:

Santa Maria della neve e il tribunale stavano l’una davanti all’altro, e per arrivare si doveva salire una strada ampia, selciata a dovere, passare l’arco del seminario, oltre il quale si ergeva l’immensa rupe di una delle cime dell’Ortobene, come un gigante pietrificato. Nei giorni di Corte d’Assise e nelle grandi feste religiose era una variopinta processione, e ciascuno andava lassù col suo segreto fardello.

Santa Maria era forse all’origine del centro storico, come oggi si usa dire, cioè del borgo abitato dai signori. Signori non vuol dire ricchi, è solo il contrario di rustico, e la differenza, ma grande, è data dall’abito civile che ha vinto il costume.

Nel suono delle campane della Cattedrale – ma anche in quelle delle altre chiese – si riconoscono qualità timbriche tra loro molto differenti, in relazione al loro significato o alle situazioni in cui vengono suonate.

Dalla cattedrale – la chiesa di Santa Maria, alta sul colle – calano sui 7051 abitanti registrati nell’ultimo censimento i rintocchi che dànno notizia che uno di essi è passato: nove per gli uomini, sette per le donne, più lenti per i notabili (non si sa se a giudizio del campanaro o a tariffa dei preti: ma un povero che si fa fare su toccu pasau, il rintocco lento, è poco men che uno scandalo). L’indomani, tutto il paese si snoda dietro la bara, con un prete davanti, tre preti, l’intero capitolo (poiché Nuoro è sede di un vescovo), il primo frettoloso e gratuito, gli altri con due, tre, quattro soste prima del camposanto, quante uno ne chiede, e veramente l’ala della morte posa sulle casette basse, sui rari e recenti palazzi. Poi, quando l’ultima palata ha concluso la scena, il morto è morto sul serio, e anche il ricordo scompare.

Le campane sono dunque un segnale che permette di raccontare quelle usanze della città che sembrano eterne, immutabili; nondimeno, di abbozzare il bellissimo ritratto del campanaro Cischeddu, uno degli innumerevoli rappresentanti del coro tragico e ridicolo della Nuoro di Satta:

La chiesa di Santa Maria con quella scritta latina che neppure i preti capivano, comandava dall'alto del colle, un campanile a destra, un campanile a sinistra, simile a un'immensa lumaca: e le campane non erano due campane qualunque, perché avevano un nome (una si chiamava Lionzedda, l'altra Lollobedda) e parlavano due linguaggi diversi, a seconda dell'officio, e anche dell'umore del campanaio, si diceva e si pretendeva di riconoscere. ― Chischeddu (tale era il suo nome, e vuol dire Franceschino) deve aver litigato col parroco ― pensavano a San Pietro e a Séuna, quando il suono di un interro era troppo frettoloso o qualche nota stonata. Chischeddu era uno di quei rottami che, non si sa per quale ragione, approdano nelle chiese, e vengono ammessi da Dio o dal parroco a partecipare alla vita dello spirito come scaccini, sacristi o questuanti, o se hanno un po’ di orecchio (era il caso di Chischeddu) come campanari. (…) Chischeddu (…) regolava con le campane la vita e la morte del borgo, dall'ave argentina del mattino, all'ave spiegata della sera, che faceva alzare la berretta ai contadini che tornavano sui loro carri, e affrettare il passo ai ragazzi di buona famiglia che smettevano di giocare nella “piazzetta”. Anche Don Sebastiano si levava dal panchetto della farmacia Piga (che non aveva nulla a che fare col Piga di Don Pasqualino) e risaliva il breve tratto selciato verso la casa, dove lo attendeva lo studio, il giornale, la lampada a petrolio. La vita a un certo punto deve finire, almeno per la gente perbene. Ma la grande distesa delle campane, nella quale Chischeddu non sbagliava una nota, neppure se il parroco gliela avesse fatta grossa pochi minuti prima, non era quella del sabato santo, alle dieci in punto del mattino, quando risorgeva Gesù (e tutti stavano ad aspettare col naso in alto) ma quella che annunciava l'uscita del vescovo dall'episcopio con la corte dei canonici in ermellino, per la celebrazione dei pontificali. Santa Maria lo attendeva con le immense porte spalancate, e l'arciprete da un lato, pronto a dare il la al coro dei seminaristi, macchia viola nello sfondo nero della chiesa: il vescovo saliva con le scarpe ricamate e la lunghissima coda sostenuta da due diaconetti la lieve erta ombreggiata di quercie che separava o univa la cattedrale all'episcopio, e su quella teoria salmodiante si scatenava il gigantesco sonaglio delle campane di Chischeddu, che non veniva più dal campanile, ma dal cielo azzurro, da tutti i cieli azzurri dell'isola che si inarcavano sulla breve scena.

  Nel seguito di questo brano, Satta si sofferma sul ruolo della chiesa e del clero a Nuoro e formula un’ipotesi su come doveva un tempo essere stata la forma architettonica di chiesa e dimora vescovile, ora divisa in diversi edifici, nell’ipotesi, un tempo unica. Nel farlo fa ancora riferimento al monsignor Roich, il vescovo che secoli prima pare avesse deciso di trasferire la sede della diocesi da Galtellì a Nuoro. Di questo si parla nel secondo capitolo, laddove è detto come Galtellì era stata allora molto più importante, ma a un certo punto iniziò a essere funestata da febbri malariche e da un clima insopportabile, specie nella stagione estiva. Va qui chiarito che, in casi come questo, la voce del narratore non vuole offrire al lettore una ricostruzione storicamente attendibile: piuttosto, vuole lentamente erigere la straordinaria costruzione letteraria e di memoria privata e collettiva che trova nella città di Nuoro l’assoluta protagonista.

È probabile che ai tempi di mons. Roich, chiesa, sagrato, episcopio formassero un solo corpo: perché altrimenti quelle mura di granito che chiudono come in un abbraccio il pendio alberato fuori della chiesa, e si aprono solo con vasti gradini sulla via selciata di recente fattura che corre lungo la cinta dell'episcopio? Vero è che la cattedrale alta, severa, sproporzionata non ha nulla a che fare con la casa dei vescovi, quella casa terrena che ricorda in grande le case dei contadini di Séuna, che più che vederla si indovina attraverso le palme che superano la cintura colorata di rosso. A pensarla, potrebbe essere la dimora estiva di un piccolo signore di provincia, col suo patio ombreggiato, addirittura una dimora di piacere se non fosse per quei lunghi preti neri che andavano e venivano nelle ore di officio. I vescovi arrivavano, prendevano stanza, venivano travolti dalla morte proprio come i papi a Roma, e ciascuno era come un piccolo papa in quel borgo di 7051 abitanti che contava almeno quaranta fra canonici e preti, due conventi di monache, le ricche e le povere, come le chiamavano, e un seminario che era come il primo gradino della speranza, per i contadini dei paesi ansiosi già allora di inurbarsi. E tutto questo in mezzo a una popolazione istintivamente pagana, come del resto erano mezzo pagani i canonici e i preti, che non si riconoscevano l'uno nell'altro e riconoscevano il vescovo perché era un estraneo.

Prima di lasciare i dintorni della Cattedrale sarà indispensabile affacciarsi al belvedere che si trova alla fine della via che divide Santa Maria della Neve dall’ex tribunale. La bellissima vista al di là della discesa in cui, all’ombra dell’abside della chiesa, si sviluppa una parte nuova della città, rivela in lontananza, tra i monti, il paese di Oliena, il più vicino a Nuoro. Questo contatto visivo è al centro di questo episodio raccontato nel romanzo da Satta, incentrato sull’arrivo a Nuoro dell’illuminazione elettrica delle pubbliche vie:  

L'illuminazione elettrica era un evento, come oggi si usa dire, irreversibile, cioè ai lampioni non si sarebbe tornati mai più. Allora avvenne un fatto che nessuna cronaca del mondo io credo abbia mai registrato. Nuoro, con la sua aureola di luce, era come una nave nelle tenebre dell'oceano. I paesi vicini continuavano nella loro notte. Il più vicino di tutti era, proprio di là dalla valle, Oliena, come dicono le carte, ma il suo vero e più poetico nome è Ulìana, con l'accento sull'i (…). Ora, dalla piazza di Oliena, Nuoro appare come una immensa fortezza, con l'abside della chiesa a picco sulla valle, il molino rosso, le case alte di San Pietro: solo un angolo, perché Nuoro, come mi pare di aver detto, si riversa tutta dall'altra parte. Ma quella sera di ottobre tutti gli olienesi si erano raccolti, uomini, donne, bambini, con gli occhi volti in su, perché la fama si era sparsa: e a un tratto apparve quella magia luminosa nell'immenso vuoto, e fu anche a Oliena un urlo di gioia. Cosa c'entravano, se non forse per via del miracolo, che è miracolo per tutti, non si sa bene. E invece c'entrarono, e come. Perché non si può stabilire con precisione da chi sia partita l'idea, ma il fatto è che i morti fanali di Nuoro presero la via di Oliena, furono venduti con la scala del lampionaio ai vicini poveri, e vennero da Oliena il sindaco col costume nuovo e il segretario a stipulare l'atto. I nuoresi si fregarono le mani di nascosto, e alla sera andavano a Sant'Onofrio a vedere Oliena che si illuminava, un fanale dietro l'altro, che si potevano contare, e chissà se anche là i ragazzini non correvano appresso al lampionaio, a raccogliere i fiammiferi spenti.

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I confini di San Pietro erano incerti, non come quelli di Sèuna, che erano segnati dal Ponte di Ferro. (…)  San Pietro finisce dove comincia il lungo Corso lastricato di Nuoro, simbolo della terza Nuoro, la Nuoro del Tribunale, del municipio, delle scuole, dell’episcopio, di Don Sebastiano, di Don Gabriele, di Don Pasqualino, dei “signori”, ricchi o poveri che fossero. Se i confini di San Pietro non erano materialmente certi, la gente di San Pietro li conosceva benissimo, e mai uno di lassù avrebbe osato di varcare la soglia del Corso (l’antica via Majore)

(Il giorno del giudizio).

Si tratta del terzo degli antichi rioni della città, quello tradizionalmente abitato dai pastori. Rispetto all’altro, Séuna, gli edifici si sviluppano maggiormente in altezza e hanno due ingressi, uno sulla via e l’altro che consente di uscire nell’orto retrostante la casa. Un classico esempio di questa conformazione è la casa di Grazia Deledda, così come appare descritta in Cosima o, indirettamente, in Sino al confine . Il quartiere è descritto anche da Maria Giacobbe, la cui famiglia abitava qui, in alcuni passi di Diario di una maestrina e Le radici. Così invece Marcello Fois, nel suo In Sardegna non c’è il mare:

Il quartiere di San Pietro (…) inizia proprio dove finisce il corso. E sembra di essere arrivati in capo al mondo. Qui il silenzio è impregnato di una strana, inspiegabile inquietudine, quella dei padri pastori, probabilmente. Le case si fanno alte e sottili, grigie di un grigio argenteo. Per San Pietro il centro pulsante è la Chiesa del Rosario, sede di prevosti acuti e parroci coltissimi. Sede di arte e pastorizia. È l’epica di una Barbagia troppo spesso vittima della sua stessa epica. Il nido di corvi magnificato da Salvatore Satta nel Giorno del giudizio. La rocca dei Corrales, magnifici e briganti. Lo scrigno di tutti i pregi e di tutti i difetti della nuoresità. (…)

È l’antichissima chiesa di San Carlo, è la casa della Deledda, è morbidezza avvolgente della pietra nuda.

Nell’osservare il quartiere, non c’è comunione prospettica nello sguardo di Deledda e di Satta; quest’ultimo, nato nella via Majore, vede così le vie e le case di questa zona:

I pastori si raccolgono tutti (…) nell’altro paese nel paese, che si chiama San Pietro, sebbene nessuna chiesa vi sia di questo nome. San Pietro, Santu Predu, è il cuore nero di Nuoro. San Pietro non ha colori: ha case già alte che danno su vie strette che non son più vicoli, e per vedere il cielo bisogna guardare in su.

Deledda rovescia invece il punto di vista, e le supposte case alte son rimpicciolite nell’immediato confronto con la chiesa principale del quartiere, come si legge in questo passo di Cosima:

La casa più importante è però quella abitata dal canonico (…): un vero fortilizio, con cortili e giardini interni, uno dei quali, quello pensile, pieno di rose, di melograni, e un gelso carico di piccoli frutti violetti. Di là si stende un panorama di case e casupole che formano il quartiere più caratteristico e popolato della piccola città, e il campanile bianco della chiesa del Rosario emerge sopra i tetti bassi e scuri come un faro fra gli scogli.

La descrizione di Santu Predu parte, in Satta, da un confronto con la diversissima Séuna. In fondo, la differenza tra la conformazione delle case dei due rioni rimanda alla differenza tra la concezione della vita del pastore e quella del contadino:

San Pietro è il prolungamento cittadino dell’ovile, c’è anche nell’aria l’odore delle pecore e delle capre. (…) Le case sono grandi perché servi e padroni vivono insieme, mangiano dallo stesso tagliere, si scaldano allo stesso fuoco, e questo rende più servi i servi, e più padroni i padroni. (…) I colpi nella notte non dicono nulla di buono, e chi vuole che gli si apra non ha bisogno di bussare. Se nella deserta capanna il pastore ha mille occhi che guardano chi crede di andare nella solitudine, in città ci sono mille occhi che guardano lui, servo o padrone che sia, perché tutti sono soggetti allo stesso destino.

Anche Grazia Deledda, attingendo alla memoria per scrivere il suo ultimo capolavoro, si sarà ricordata di simili colpi notturni alla porta di casa. In un bel brano di Cosima si legge di quando il padre della scrittrice si trovò a ricevere un inatteso ospite che si faceva ambasciatore di certi famosi banditi, che ‘chiedevano’ la concessione di alcuni terreni da pascolo che Giovanni Antonio Deledda aveva però già affittato a terzi. Trattare su simili richieste poteva far temere conseguenze anche fatali. Tuttavia, il saggio Deledda – che la figlia scrittrice descriverà come uomo prudente e giusto – riuscì a far ragionare il tenebroso messaggero, che anzi in seguito gli divenne amico e fidato mezzadro. Anche il notaio Sebastiano Sanna Carboni si proponeva di essere uomo prudente e dominato da un incrollabile senso di giustizia: se non fosse che i tempi, nella generazione che intercorre tra Deledda e Satta, sono cambiati irrimediabilmente, e in un romanzo cupo come Il giorno del giudizio non si riesce a trovare risoluzione a dispute o controversie. Non si riesce, in sostanza, a trovare il senso ultimo della giustizia, come emerge da parole come queste:

Diviso da Nuoro da insormontabili barriere, forse San Pietro aveva un’altra vita. San Pietro gettava coi suoi patriarcali delitti un ponte verso il futuro: Sèuna non era che un carro e un giogo, e non sapeva e non si curava di essere.

O dalla presentazione della famosa e temuta dinastia di Santu Predu:

È a San Pietro che abita, e non può che abitare a San Pietro, la dinastia dei Corrales. Nelle loro case (…) si entrava a cavallo, proprio come negli ovili: ma le case sono alte, tre, quattro piani, anche se la vita, rimasta nomade, si svolgeva tutta al piano terreno, come nella casa di Don Sebastiano, ma con altre presenze. I Corrales (…) avevano guardato quella sterminata campagna con l’occhio del pirata che guarda il mare: e lo sguardo loro si era tradotto in azione, la misteriosa azione del ladro che è all’origine della proprietà. Rubare, quel che noi chiamiamo rubare nell’artificioso presupposto che esista una cosa mia e tua, (…) significa in Sardegna, o meglio a Nuoro, o meglio a San Pietro, prendere un gregge di mille pecore, e dissolverlo nel nulla. (…) Si capisce che i Corrales non hanno la bacchetta magica, e mille pecore (…) non si possono rubare se non le ruba tutta la Sardegna. Ma questa è la magia dei Corrales: di aver fatto ladri tutti i sardi, o almeno tutti i barbaricini (gli altri sardi, del resto, non contano).

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Nei pressi della casa di Grazia Deledda si trova il Mulino Gallisai, descritto nel Giorno del giudizio come il grande mulino impiantato al limite del paese da Don Pasqualino Piga (nome che cela l’identità di Francesco Guiso Gallisai):

Ricco di un’immensa ricchezza (…), alto, bello, Don Pasqualino Piga aveva la vocazione dell’industria, quasi unico fra i nuoresi, che l’industria non sapevano neppure che cosa fosse.

Le parole dell’autore collocano il mulino ai margini di Séuna, ma è evidente che il quartiere dei contadini, andrebbe sostituito con quello dei pastori:

Al limite di Sèuna aveva impiantato un mulino a vapore, con annesso un pastificio, che riempiva di battiti, come di un grande cuore, tutta la contrada. I palmenti lavoravano giorno e notte, e tra il velo finissimo di farina brancolavano le ombre dei figli di Don Pasqualino, che lavoravano come gli operai, più degli operai, con la dedizione tumultuosa che sempre hanno i signori, quando scoprono il lavoro.

Nel cuore del quartiere di San Pietro, sorta nello stesso luogo in cui si trovava un tempo un’altra chiesa (quella dedicata al santo che dà il nome al quartiere), la Chiesa del Rosario fu edificata nel XVII secolo, ma conobbe, tra il XIX e la seconda metà del XX, più radicali ristrutturazioni e rimaneggiamenti leggibili nell’aspetto attuale. La chiesa, divenuta parrocchia a partire dal 1943, è una tappa cruciale nelle celebrazioni legate ai festeggiamenti in onore di San Francesco di Lula: il primo di maggio parte infatti da qui il secondo pellegrinaggio verso il Santuario.

È qui che l’11 gennaio del 1900, alla presenza dei soli familiari e di poche altre persone, si celebrarono le nozze di Grazia Deledda  e Palmiro Madesani, conosciuto pochi mesi prima a Cagliari. Ma si tratta di un luogo importantissimo nel romanzo di Salvatore Satta, a cominciare dalla bellissima e tetra sequenza iniziale, nella quale il narratore descrive i funerali della città, che da qui partivano, per percorrere la poca distanza che divide la chiesa dal camposanto.

Ci accompagna però alla visita di questa chiesa un altro brano del Giorno del giudizio; è ben noto il fatto che il romanzo è ispirato a fatti reali e che, a suo modo, si possa definire autobiografico. C’è anche chi – come Vanna Gazzola, autrice della principale biografia dell’autore – ha notato che un possibile modello del Giorno è proprio Cosima, libro che Satta amava particolarmente. In questo brano la voce narrante si affaccia in prima persona. È un narratore spesso nascosto, quello del romanzo di Satta, eppure presente in ogni pagina, sottilmente imparentato con l’autore:

 

Eccomi sboccato nella piazza del Rosario, la chiesa all'uscita dal paese, dove i morti sostavano quasi per prendere fiato prima dei fatali cinquecento metri che per prati e muriccioli li portavano a morire davvero. Il quartiere del Rosario era un pezzo di San Pietro, c'è poco da discutere, ma la missione della chiesa gli dava un'impronta metafisica, che San Pietro si guardava bene dall'avere. Formalmente l'officiante era prete Delussu, il fratello del maniscalco, che claudicava nel suo grosso corpo pieno di sangue e di vino; ma nelle realtà chi riceveva il morto era tutto il quartiere. All'ora fissata per l'interro, le campane di Santa Maria gettavano quei grossi rintocchi dondolanti, che facevano fermare la gente per la strada, a chiedere: chi è il morto? Naturalmente se non si trattava di persona nota. Duravano un quarto d'ora: poi d'improvviso quella stessa campana così severa si abbandonava a una specie di galoppo che fluiva giù per la ripida discesa: era il momento in cui il prete in cappa nera, un sacrista davanti con la croce astile e uno al fianco col turibolo, usciva dalla cattedrale (tutto partiva di là) a prendere il morto. Potevano essere tre preti, sempre in cappa nera, se la famiglia li voleva e li pagava, ed era sempre una scena frettolosa che imbronciava il cielo e la terra. Ma poteva essere l'intero capitolo, coi canonici in doppia fila e l'ermellino e il tricorno filettato di rosso, e allora tutto si svolgeva con pacata lentezza, tra canti di morte e di gloria cui dava l'avvio e segnava il tempo l'odiato arciprete. Una macchia di colore, uno spettacolo che la famiglia offriva, e doveva offrire se era ricca, alla gente, che usciva di casa man mano che il morto passava, per mettersi appresso. La teoria dei canonici si svolgeva lungo il Corso e tra le file delle casette basse, e nella solennità del canto si sentiva che essi ascoltavano la loro voce, e nessuno certo pensava a mettersi al posto di quel poverello dentro la cassa. Ma queste sono cose poco importanti. Il fatto è che appena la campana ritmava il galoppo, le donne uscivano dalle dimore attorno alla chiesa, suscitavano prete Delussu, si facevano dare la chiave, spalancavano la porta rossigna, e trascinavano dalla sacrestia un vecchio tavolo che disponevano in mezzo alla rustica navata. Qualcuna dava un colpo di scopa sollevando un nugolo di polvere, qualche altra ripuliva i santi gelati dentro le nicchie, o aggiustava la corona di stelle intorno alla madonnina bianca e blu, o disponeva gli attrezzi per la benedizione e per l'accensione delle candele. Poi tutte si recavano sulla soglia, per la grande attesa, perché esse erano le ospiti del nuovo venuto, e spiavano l'arrivo. Quando lo vedevano spuntare, issato sulle spalle pietose dei confratelli, chiamavano prete Delussu, gli facevano strada fino a lui, ed egli se lo pigliava, lo faceva posare sul tavolo, e là recitava le preghiere con voce sommessa, che pareva facesse quattro chiacchiere col morto. Ora hanno rifatto la facciata del Rosario con blocchetti di cemento, ed è chiaro che i morti non ce li portano più, o che non abbiano bisogno di sosta, o che non muoia più nessuno, come è più probabile. 

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Situato al limitare del rione di Santu Predu e non lontano dalla Chiesa della Madonna della Solitudine, il cimitero di Nuoro è forse il luogo più importante nel Giorno del giudizio. Qui vengono sepolti i nuoresi dal 1868, dopo che il Comune, alcuni anni prima, aveva acquistato l’appezzamento di terra noto, appunto, come Sa ‘e Manca.

Poi, quando l'ultima palata ha concluso la scena, il morto è morto sul serio, e anche il ricordo scompare. Rimane la croce sulla fossa, ma quella è affar suo. E infatti nel cimitero, meglio nel camposanto dominato da una rupe che sembra una parca, non c'è una cappella, un monumento. (Oggi non è più così: da quando la morte ha cessato di esistere è tutto pieno di tombe di famiglia: sa 'e Manca, quella di Manca, come si chiamava, credo dal nome del proprietario anticamente espropriato, è diventata oltre le costose muraglie, oltre gli assurdi colonnati, la continuazione della città imborghesita). (S. Satta, Il giorno del giudizio)

Satta scrisse il suo romanzo a mano, con pochi ripensamenti, in due agende identiche, una del 1970 e l’altra del 1971. Queste pagine furono poi dattiloscritte, in vista della pubblicazione, che però si concretizzò solo due anni dopo la morte dell’autore, nel 1977, per un editore – Cedam – specializzato in pubblicazioni giuridiche, presso il quale il grande studioso di diritto aveva familiarità. Fu però nel 1979, quando il romanzo fu ripubblicato da Adelphi, che il Giorno divenne un clamoroso caso editoriale, andando incontro al suo destino di classico del Novecento italiano ed europeo.

Camminando tra tombe e cappelle di famiglia, il lettore che volesse cercare i nomi dei protagonisti del romanzo difficilmente potrà trovarli. I familiari dello scrittore, infatti, decisero di intervenire sul testo a modificarne nomi e cognomi, per ragioni vuoi di etica, vuoi di riservatezza. Nel manoscritto tutti i nomi dei personaggi corrispondono a quelli delle persone effettivamente vissute nella Nuoro del primo Novecento, negli anni a cavallo della grande guerra, quelli in cui il romanzo è ambientato. È così che la famiglia Sanna Carboni, resa celebre dall’edizione Adelphi e dalle successive, è in realtà Satta Carroni: proprio quella dell’autore. E solo per fare un altro esempio, la famiglia Bellisai corrisponde invece, dalla finzione letteraria alla realtà, alla famiglia Gallisai: che non avrà probabilmente apprezzato la prospettiva narrativa di Satta sulle vicende del maestro Don Ricciotti. Lo stesso lettore che vorrà scoprire tutto (o quasi) sui cambiamenti intercorsi tra il manoscritto e le versioni a stampa del romanzo, dovrà procurarsi i volumi curati da Giuseppe Marci (L’autografo del Il giorno del giudizio, edito da Cuec) o da Aldo Maria Morace (Il giorno del giudizio, edito da Il Maestrale). In quest’ultimo sono anche stati parzialmente ripristinati i nomi del manoscritto. Infine, è possibile arrivare alla radice: visitando il sito del Fass (il Fondo autografi scrittori sardi conservato presso l’Università di Sassari) è possibile vedere e leggere integralmente lo stesso manoscritto, tramite scansioni digitali di alta qualità.

Per terminare la nostra passeggiata guidata dal Giorno del giudizio, leggiamo alcune altre pagine relative al cimitero di Sa ‘e Manca:

Sono stato, di nascosto, a visitare il cimitero di Nuoro. Sono arrivato di buon mattino, per non vedere e non essere veduto. Sono sceso a Montelongu, là dove Nuoro allora finiva e cominciava, all'orlo di San Pietro, e mi sono avviato per le piccole strade della mia lontanissima infanzia. Ne rimangono ancora le tracce, ad onta degli sforzi delle nuove amministrazioni, nelle casette basse, con qualche resto polveroso di pergolato, qualche patio disadorno. Hanno dato i nomi alle vie: sono scritti in azzurro su targhe di ceramica bianca, inquadrate da un filo sottile anch'esso azzurro, e sono nomi di oscure glorie, nei quali deve aver messo lo zampino canonico Fele. Sono sicuro che Don Priamo le avrebbe disapprovate. ― E che bisogno c'è di targhe ― avrebbe detto memorabilmente in Consiglio ― quando tutti sanno dove si deve andare?

Come in un negativo che si sviluppa, volti remoti ricompaiono in questi che mi circondano: gente sparita dalla terra e dalla memoria, gente dissolta nel nulla, e che invece si ripete senza saperlo nelle generazioni, in una eternità della specie, di cui non si comprende se sia il trionfo della vita o il trionfo della morte. Mi sembra di essere già nel cimitero dove sono diretto, un cimitero di vivi, certo: ma non sono i vivi che sono venuto a cercare in Sa 'e Manca, nel camposanto dominato dalla rupe, che sembrava una parca?

Lascio la piazza, lascio le vie nuove che non riconosco, lascio le ultime casette affacciate con indifferenza sul camposanto (per la prima volta mi par di capire l'arcano significato del pomerio), e mi trovo di fronte al luogo che è stato l'oggetto o la ragione del mio viaggio.

Fanciulla, attorno al tuo bianco recinto
Prono è un bifolco sulla stiva, ed ara.
La lodoletta con sua voce chiara L'accompagna dai cieli di giacinto.

Perché mi sgorgano dalla memoria questi antichi versi? È come se ai miei occhi rispuntasse la prima alba del mondo. Queste costose muraglie che hanno sostituito e inghiottito il vecchio cimitero, e lo hanno fatto troppo grande per i vivi e per i morti, svaniscono (cosa direbbe Don Priamo se si svegliasse là dentro?); ancora il bifolco ha ripreso il suo aratro, e l'opera di vita che solca la terra si accompagna dentro il recinto all'opera di Milieddu, il becchino di tutti i nuoresi, che è anch'essa opera di vita; e per tutti canta sospesa nel cielo l'allodola. È un momento di poesia, come qualche volta avviene, e il mio segreto timore cede a un'interna gaiezza. Mi avvicino al cancello, che hanno sostituito al corroso portone, e mi preparo a cercare Milieddu, senza pensare che oggi dovrebbe avere almeno cent'anni.

(…) Era un uomo buono, e pareva chiedere scusa a ogni morto di doverlo seppellire, ma tant'è lo seppelliva, senza curarsi se fosse povero o ricco, se fosse Fileddu o Don Sebastiano; e questo non gli procurava né odio né amore, ma lo rendeva come il padrone di tutti. Era come se ciascuno avesse un altro se stesso: lui e Milieddu; e quando si parlava, e qualcuno chiedeva se proprio era sicuro di quel che diceva, la risposta era: ― Sicuri si è in mani di Milieddu. Insomma, a Nuoro la morte aveva un nome. Varco il cancello. Ci sono due giovinotti gagliardi, con una divisa da corvo, seduti in ozio, come soldati di un corpo di guardia. Chissà come avrà fatto Milieddu a seppellirsi da sé. Mi osservano indifferenti. Il cimitero si è dilatato fino alle estreme falde del Monte e ricorda quelle esposizioni di statuine di gesso o di terracotta che si trovano all'ingresso delle città. M'incammino tra viali leziosi, pieni di nomi che non mi dicono nulla. Sta per prendermi la terribile angoscia del nulla, come quando si traversa una piazza o ci si aggira per una casa deserta, e finalmente scorgo in fondo a un vialetto di cipressi polverosi una chiesa di cemento, come quella del Rosario. Subito capisco che l'hanno messa al posto della cappelletta sbrecciata dove i pacifici vescovi nuoresi se ne stavano in fila, aspettando la certissima resurrezione. Il punto è qui. Ecco i due angeli di marmo, curvi mestamente uno sull'altro, che piangevano in eterno gli orgogliosi morti della famiglia Mannu, ecco la pietra tombale di Boelle Zicheri, il farmacista che lasciò tutto all'ospedale in odio ai parenti, quella di Don Gaetano Pilleri che continuava senza la croce il suo odio per i preti, ecco le prime tombe delle famiglie pastorali, coi loro nomignoli diventati nomi e i fieri ritratti in costume negli ovali di smalto, ecco la stele infranta di un giovinetto, con una scritta (“tu piangi e io dormo lontan nel campo santo”) che angosciava le mie notti, ecco il modesto recinto di ferro che racchiude maestro Manca, e gli impedisce di ridiventare Pedduzza (pietruzza) e tornare alla bettola nella quale scivolò sotto il tavolo, ucciso dall'ultimo bicchiere di vino che stava assorbendo... Con un raggio di cento metri potrei segnare di qui i termini delle vecchie, umide mura. Basta seguire tutto ciò che è annerito dal tempo, slabbrato, dimenticato, ciò che è morto la seconda volta. E di là da queste povere tombe ancora si stende un breve tratto di terra, breve e infinito, con qualche avanzo di croce a sghimbescio, qualche croce riversa, come se abbia esaurito la sua funzione. Mi chiedo se ci sia più speranza in tutte quelle tombe dove i morti se ne stanno soli o in questa terra sotto la quale le ossa di infinite generazioni si accumulano e si confondono, si sono fatte terra anch'esse. In questo remotissimo angolo del mondo, da tutti ignorato fuori che da me, sento che la pace dei morti non esiste, che i morti sono sciolti da tutti i problemi, meno che da uno solo, quello di essere stati vivi. Nelle tombe etrusche rugumano i bovi, le più grandi sono fatte ovili. Sui lettini di pietra posano le pentole e le fiscelle, gli umili arnesi della vita pastorale. Nessuno ricorda che siano tombe, neppure l'ozioso turista che si arrampica sul sentiero scavato nella roccia, e si avventura nel buio profondo dove risuona la sua voce. Eppure essi sono ancora là; da duemila, tremila anni, perché la vita non può vincere la morte, né la morte può vincere la vita. La resurrezione della carne comincia il giorno stesso in cui si muore. Non è una speranza, non è una promessa, non è una condanna. Pietro Catte, quello che si era impiccato ad un albero la notte di Natale, nella tanca di Biscollài, credeva di poter morire. Ed ora anch'egli è qui (poiché i preti, facendolo passare per pazzo, lo hanno sepolto nella terra consacrata) con Don Pasqualino e Fileddu, Don Sebastiano e ziu Poddanzu, Canonico Fele e maestro Ferdinando, i contadini di Séuna e i pastori di San Pietro, i preti, i ladri, i santi, gli oziosi del Corso; tutti in un groviglio inestricabile, qui sotto. Come in una di quelle assurde processioni del paradiso dantesco sfilano in teorie interminabili, ma senza cori e candelabri, gli uomini della mia gente. Tutti si rivolgono a me, tutti vogliono deporre nelle mie mani il fardello della 59 loro vita, la storia senza storia del loro essere stati. Parole di preghiera o d'ira sibilano col vento tra i cespugli di timo. Una corona di ferro dondola su una croce disfatta. E forse mentre penso la loro vita, perché scrivo la loro vita, mi sentono come un ridicolo dio, che li ha chiamati a raccolta nel giorno del giudizio, per liberarli in eterno dalla loro memoria.

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