Chiesa della Madonna della Solitudine di Nuoro

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La Chiesa della Madonna della Solitudine, ai piedi del Monte Ortobene di Nuoro, venne edificata nel 1625. In origine si trattava di un semplice santuario campestre posto fuori dal centro abitato, consacrato alla Madonna Addolorata, nel quale i pastori e i contadini si ritrovavano in occasione delle feste e delle sagre dedicate alla Vergine: è questo l’antico edificio in cui Grazia Deledda ambientò il suo ultimo e omonimo romanzo del 1936 – La chiesa della solitudine, appunto –, la cui protagonista, Maria Concezione, soffriva del suo stesso male incurabile. Anche per questa ragione di matrice squisitamente letteraria, e per il fatto che accoglie le spoglie dell’autrice Premio Nobel, la chiesa è particolarmente cara alla città.

Nel 1947, a undici anni dalla scomparsa della Deledda – era morta a Roma la mattina di Ferragosto del 1936, e da allora riposava nel Cimitero del Verano – venne avanzata la proposta che la sua salma venisse definitivamente riportata nell’Isola e tumulata all'interno della chiesetta. Il Comitato per le Onoranze Funebri, presieduto dall’avvocato e senatore Antonio Monni, bandì allora un concorso per il restauro, che venne vinto dal pittore concittadino Giovanni Ciusa Romagna, mentre il sassarese Antonio Simon Mossa si vide assegnata la sistemazione del viale e del piazzale antistante (oggi rimaneggiato).

La proposta di Ciusa Romagna per una nuova costruzione che andasse a sostituire quella secentesca, ormai in pessime condizioni, non mancò di suscitare polemiche, ma di fatto l’artista rimase fedele alla semplicità dell’impianto originale, e addirittura tenne presenti alcune descrizioni presenti nel romanzo deleddiano per il disegno dell’abitazione del custode, comunicante con l’edificio sacro. Nel corso dei lavori, inoltre, Ciusa Romagna preferì abbandonare alcune idee progettuali della prima ora per adottare soluzioni improntate a un imperativo di sostanziale sobrietà. Per gli interni, per esempio, aveva dapprima previsto una decorazione a fasce bicrome orizzontali bianche e verdi, tipica del romanico regionale, ma successivamente optò per il bianco uniforme, frequente nelle costruzioni campestri; tanto più che il motivo avrebbe dovuto rivestire i pilastri a base quadrata lungo le pareti dell’unica navata dell’edificio, dove ora si possono apprezzare delle arcate a tutto sesto.

La semplicità del luogo di culto, piccolo ma di grande intensità lirica e adatto al più sentito raccoglimento, trova conferma anche nella facciata a capanna culminante nel piccolo campanile, nella copertura della volta interna a capriate lignee e nella purezza delle linee dell’abside semicircolare. Di contro, sono gli originalissimi componenti dell’arredo sacro a rendere tutt’oggi la chiesa un prezioso e inimitabile gioiello. A realizzarli, nella seconda metà degli anni Cinquanta, furono due artisti sassaresi: lo scultore Gavino Tilocca, a cui si deve il rilievo marmoreo della Madonna con Bambino collocato nell’abside, e il designer Eugenio Tavolara, che mise a punto il progetto decorativo unitario di cui fanno parte il portone d'ingresso, le quattordici stazioni della Via Crucis appese alle pareti laterali, lo sportello del tabernacolo, i candelabri, il crocifisso e la campana (donata alla chiesa dal figlio della scrittrice, Franz Madesani, nel 1956).

Tavolara concepì un disegno secondo un principio d’ensamble, di modo che tutte le opere realizzate per la chiesa dialogassero tra loro nel richiamo comune agli stilemi decorativi dell’arte popolare sarda (dall’intaglio al ricamo alla tessitura). I rimandi alla tradizione isolana, ovviamente mediati dall’artista in chiave dotta e non senza rielaborazioni personali e divagazioni fantastiche, sono evidenti soprattutto nel grande portone in bronzo, in cui si compie la fusione “misteriosa” di alta decorazione e profonda religiosità, intesa come sentimento in cui riescono a convivere pacificamente fede cattolica e mito popolare. Collocata al centro della superficie rettangolare, la figura della Madonna con Bambino risulta isolata dal resto tramite un ulteriore riquadro; e se la Vergine ha la dignità e l’autorevolezza di un’icona bizantina – frontale, immobile e ieratica com’è – ecco che tutto attorno a lei, oltre la cornice geometrica, gravita una costellazione eterogenea e misteriosa di arabeschi, simboli e figure fantasiose: le sagome di angeli e santi si alternano a quelle di una fauna variegata (cavalli, volatili, rettili, cinghiali, pecore…), mentre gli spazi vuoti, come per un horror vacui primitivo di memoria medievale, sono colmati da una fitta teoria di soli, lune, stelle, croci e rosette. Tutta da ammirare e da decifrare, apparentemente naif e invece ricca di sofisticatissimi rimandi simbolici, la porta della Chiesa della Solitudine assume le caratteristiche di una vera e propria “soglia”, oltre a rappresentare una delle vette della produzione dell’artista sassarese e ad essere esempio eccellente di maestria progettuale e artigiana. Imponente e magnetica, essa non aspetta altro che di essere varcata dal fedele più devoto o dal semplice visitatore, che all’interno del santuario troverà la giusta atmosfera per avvicinare il piccolo sarcofago in marmo nero in cui oggi riposano le spoglie mortali di Grazia Deledda.

 

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Bibliografia essenziale

  • Deledda, La chiesa della solitudine, Milano, Treves, 1936; Nuoro, ILISSO, 2008;
  • Altea, M. Magnani, Eugenio Tavolara, Nuoro, ILISSO, 1994;
  • Giovanni Ciusa Romagna. Il sentimento del colore, G. Ciusa Fois e M. Ciusa (a cura di), Venezia, Il Cardo Editore, 1996;
  • Altea, M. Magnani, Pittura e scultura dal 1930 al 1960, Nuoro, ILISSO, 2000;
  • M.L. Frongia, Giovanni Ciusa Romagna, Nuoro, ILISSO, 2005;
  • Eugenio Tavolara e il mondo magico, catalogo della mostra a cura di G. Altea e A. Camarda (Nuoro, Museo Tribu, 21 dicembre 2011-30 aprile 2012), Nuoro, ILISSO, 2012;
  • Nuoro e il suo volto, O. Alberti e A. Caocci (a cura di), Sassari, Carlo Delfino Editore, 2014.